martedì 17/11/20
Ho già vissuto Roma, per circa tre anni, ma forse mai veramente a fondo.
Iniziai una convivenza a San Lorenzo, poi ci spostammo a Nord, avemmo anche un figlio, un figlio napoletano nato in questa città enorme, per tanti versi dispersiva data la sua scarsa densità abitativa ― almeno così sembra a me che vengo dalla più popolosa città occidentale del ‘600, che anche oggi è mostruosamente caotica.
Erano molti anni che non vivevo più l’Urbe, nel mentre è arrivata la mia separazione, poi alcuni impegni di lavoro mi hanno riportato qui, fra i quali l’organizzazione di un laboratorio internazionale professionale di un certo rilievo, e ho ricominciato a frequentare persone nuove in zona.
Fra queste ho conosciuto una “pignattara” (acquisita) entusiasta del “suo” quartiere, a me pressoché ignoto, lo avevo marginalmente sfiorato per via del Circolo degli Artisti, ma lì è già Mandrione, siamo fuori zona, insomma, in tutta franchezza non lo conoscevo affatto.
Mi ha quindi presentato questo “suo” quartiere, “il suo posto sulla Terra” (semicit. Mesto na Zemle — 2001 — Artur Aristakisyan): il Pigneto, un caotico ammasso di abusi edilizi, una anarchica esplosione di vita impossibile da circoscrivere come da governare, queste baracche sublimate e matericamente irrobustite, non nello spirito però, perché la precarietà della vita, nell’accezione più alta del termine, ha resistito.
La condizione di baraccati è quella propria di ogni essere umano, anche se pretendiamo di guadagnare una emancipazione da essa restiamo tutti, forse felicemente, dei baraccati, ma è grazie a questa condizione che abbiamo il privilegio di godere di ogni momento.
Quest’anima che abbraccia la precarietà come un amico vero e un po’ scomodo è affine a quella mia partenopea, differente ma aderente nell’essenza e nell’approccio che si ha verso il mondo, verso le cose e gli accadimenti.
Mi aveva sempre sorpreso che lei, romana d’adozione, lei che aveva vissuto tanto e girato mezzo mondo, fosse così profondamente innamorata di questo pezzetto di città, che lo fosse tanto da desiderare caparbiamente di metterci radici, proprio lei che era sempre stata più nomade che stanziale (prima di questa sedicente pandemia ça va sans dire).
Mi spiegò quale fosse la storia del quartiere, partendo dal deposito dei tram, dai palazzoni che furono costruiti per i dipendenti ATAC, le case dei ferrovieri, mi disse delle baracche che divennero abitazioni fantasiose, del fatto che fosse un quartiere popolare e vivo ma anche che fino a pochi anni fa fosse considerato soltanto suburbia, prima della gentrificazione.
Il cuore è sicuramente l’isola pedonale di Via del Pigneto, è anche il posto dove si concentrano più locali, mescite, ristoranti, bar, librerie, centri culturali, anche nelle viuzze laterali, che hanno il sapore di tempi andati, con edifici di inizio secolo scorso e alberi. Oggi pare sia diventato il quartiere Hipster ― che a me che la barba non la faccio per praticità e me la taglio a membro di segugio (colla macchinetta) se necessario, frega assai poco ― che sia ambìto da artisti e creativi, che sia il quartiere di Pier Paolo Pasolini, quello dove ha girato “Accattone”, che la troupe mangiasse da “Necci”, che dal lato opposto della Prenestina, in Via Montecuccoli, hanno girato la scena più famosa di “Roma città aperta”, con quell’attricetta immensa di Anna Magnani, che sia pure dove Fantozzi di Paolo Villaggio rincorre l’autobus tuffandosi da casa sulla tangenziale, insomma, un quartiere per niente scontato.
Mi portò a fare un tour minuzioso della street art della zona, notevole devo dire, opere che pervadono gli angoli più impensati, spesso si trova PPP, con il suo occhio (Maupal), o la sua testa mascherata, messa in orizzontale che ci ricorda in caratteri gotici “io so” (Omino71), poi i “pezzi” anarchici, la sublimazione dei disagi interiori espressi sui muri di una officina mimetizzata, le geometrie ossessive e imponenti su intere facciate dei pochi palazzoni (2501), l’era industriale di M-City che copre la facciata di un edificio che si ammira dal giardino del “Rosti”, l’ex SNIA — dove vado a volte a correre — i vicoletti prima dell’area pedonale una volta superato il “ponticino” che passa sui binari, e mi scordo di sicuro tanto di quello che c’è da vedere.
Quello che amavo poco di Roma era la sua dimensione vagamente impersonale, gli spazi enormi, certo è una dimensione propria delle borgate e delle zone residenziali, sono tutte zone parecchio impersonali, senza una vera anima, così come le zone borghesi e alto-borghesi, troppa ostentazione di facciata e poca vita, poca socialità, delle gabbie dorate ― più spesso placcate oro ― ma niente odore e rumore, solo tristezza e solitudine, vita non pervenuta.
Pochi giorni fa sono andato da un tabaccaio, qui al Pigneto, dovevo prendere una marca da bollo, in fila c’era una coppia, lui col braccio ingessato retto da un tutore.
Erano giovani e sportivamente kitsch, io non potevo entrare perché pare ci sia il covid, dietro di me arriva un tizio grosso e caciarone, un “coatto” ma di quelli spassosi, che comincia a canzonare il ragazzo “aò…manco ll’hai capito che nun la devi fa’ ‘ncazza’?” e rideva di pancia, era contagioso, al che abbiamo cominciato tutti a cazzeggiare e a ridere come se ci conoscessimo da sempre. Ho chiacchierato anche con il proprietario mentre prendevo quello che mi serviva, è stato piacevole, tutti erano disponibili e sinceri.
Il Pigneto è così, ti senti a casa in una metropoli, è un posto con un’anima, con una sua codifica della vita, un suo modo di relazionarsi con chi ne calpesta il suolo e di obbligarli a relazionarsi fra loro, e obbliga a farlo nel modo come fanno solo gli esseri umani, l’esatto contrario di quello che vorrebbero farci diventare.
Magari, adottatemi.
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