05/12/22
Ultimamente sto avendo dei grossi problemi di comprensione con persone che godono di tutta la mia stima e con cui, per motivazioni del tutto singolari, vedo messa in discussione pesantemente una affinità intellettuale faticosamente instaurata nel tempo.
Mi è già capitato e mi capiterà ancora di sicuro. Io che, come loro, mi sforzo di pensare, ho dinamiche tutte mie, a volte infantili ― perché non siamo affatto diversi da quelli che si accapigliano nella diversa interpretazione di un’azione della propria squadra di calcio ― perché siamo umani, dominati da passioni che, per quanto sublimate, restano pulsanti e ci governano come pùpi.
Viviamo una divergenza minima, più spesso una mera incomprensione, come il più alto dei tradimenti ma c’è molto di più, se il sedicente o concreto “tradimento” ci arriva da vicino allora peggio ci sentiamo, restiamo orfani del nostro prezioso investimento di fiducia, ci sentiamo come Cesare che fissa gli occhi di Bruto nei suoi ultimi istanti, siamo stati traditi… tu quoque?
C’è tutto il fardello delle nostre fragilità e insicurezze che concorrono a questo, zavorre emotive, preconcetti, solo in pochi casi le divergenze sono realmente quello che sembrano e, pure in questi casi, il confronto sarebbe possibile, anzi doveroso.
Le divergenze di chi ci è più affine sono quelle più difficili da tollerare e da gestire, eppure sono quelle che vanno affrontate e per due motivi. Il primo è perché chi ci è vicino, prossimo, è chi è oggettivamente più possibile raggiungere e con cui è più facile concordare una qualsiasi cosa. Il secondo è perché potremmo proprio noi cambiare idea e/o posizione riguardo l’oggetto del contendere. Il secondo modo è assai praticato da me, molto meno da chiunque abbia incontrato nei miei non pochi anni di vita.
Quello che invece vedo improduttivo, oltre che amaramente frustrante, è abbandonarsi allo scontro, ma restiamo umani e da tali agiamo.
“Le pubblicazioni trockiste rifiutarono di pubblicare le mie rettifiche. Ritrovavo nei perseguitati gli stessi costumi che nei persecutori. C’è una logica naturale del contagio per combattimento; la rivoluzione russa continuò così, suo malgrado, certe tradizioni del dispotismo che aveva appena abbattuto; il trockismo dava prova di una mentalità simmetrica a quella dello stalinismo, contro il quale si era levato e che lo stava schiacciando… Ne ero addoloratissimo, perché ritengo che la forza ostinata di alcuni uomini può rompere malgrado tutto con le… tradizioni soffocanti, resistere ai funesti contagi. Il nostro movimento di opposizione, in Russia, non era stato trockista, perché non intendevamo collegarlo a una personalità, dato che era precisamente una ribellione contro il culto del capo Il Vecchio non era per noi altro che uno dei nostri più grandi compagni, un maggiore di cui si discutevano liberamente le idee. Ora, dieci anni dopo, minuscoli partiti, come in Belgio quello di Walter Dauge, che contava appena qualche centinaio di membri in una regione del Borinage, lo chiamavano il nostro… “capo glorioso”; e chiunque, nei circoli della Quarta Internazionale, si permettesse di enunciare obiezioni alle sue tesi, era prontamente escluso e denunciato negli stessi termini di cui la burocrazia si era servita contro di noi in Russia. Senza dubbio ciò non aveva grande importanza, ma che un simile circolo vizioso potesse chiudersi, era un indizio psicologico tra i più gravi: quello della decadenza interna del movimento. Mi sembrava che la nostra opposizione avesse avuto a un tempo due significati contrari. Per la maggioranza, era stata una resistenza contro il totalitarismo in nome delle aspirazioni democratiche dell’inizio della rivoluzione; per qualcuno dei nostri dirigenti vecchi bolscevichi era stata al contrario una difesa dell’ortodossia dottrinale, che non escludeva una certa democraticità pur essendo fondamentalmente autoritaria.”
Victor Serge, “Memorie di un rivoluzionario“, edizioni e/o, maggio 2017, pp. 448
A questo punto più che faticare per costruire e ricucire le divergenze mi viene una sana voglia di anarchia, il desiderio di sbattermene di tutto e dedicarmi a quelle poche cose che mi fanno stare bene come, ad esempio, perseguire lo sviluppo ― come sempre ho fatto e sempre farò ― di un mio pensiero autonomo, autarchico, che se ne fotte di tutto e di tutti perché, anche se amo il confronto, non subisco il peso del pensiero di nessuno, casomai lo uso, lo fagocito e poi, se non mi serve, me ne libero, altrimenti lo introietto, ma lo faccio sempre e sempre lo farò a modo mio.
PS: ne parlai, in altri termini e con altre finalità, QUI.
Yes, it was my way
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