Tutti, direttamente o meno, per i motivi più svariati, nei momenti più diversi, hanno dialogato con la morte, hanno fatto i conti col tempo, finito, che ci è dato in sorte.
Se penso al me ragazzino o addirittura bambino, al me giovane, al senso di eternità che sentivo riguardo il tempo della mia stessa vita, allora comprendo, mi prendo carico nel profondo, dei miei enormi errori di valutazione.
Quando ho usato e abusato del mio feroce libro per digerire la battaglia che sono stato obbligato a combattere per continuare a vedere crescere mio figlio, una battaglia difficile, estenuante ― eppure sorprendentemente rivelatrice ― mi rileggevo e finalmente, solo in quel momento sospeso e ovattato della mia vita, sono riuscito a vedere chi fossi realmente, chi avevo voglia di essere, ad assecondarmi e soprattutto a perdonarmi gli enormi e molteplici errori, ho smesso di recitare me stesso.
Accettare che la vita abbia una fine, che sia naturale che arrivi, che sia addirittura necessario che arrivi, per dare il valore corretto al tempo in cui sei vivo, è un capovolgimento spirituale fondamentale che ognuno di noi, immagino, è obbligato in un dato momento a compiere.
Quando mi guardo intorno, in questo momento, vedo un percorso antitetico a quello che ho sperimentato allora, ma anche inaspettatamente illuminante, in quei momenti tanto intimi e intensi nel privato della mia asettica camera sterile.
La vita è una parola che ha due accezioni complementari, due aspetti entrambi necessari eppure assai differenti, li possiamo indicare con i due termini greci ζωή e βίος.
ζωή (zoé): il principio, l’essenza della vita che appartiene in comune, indistintamente, all’universalità di tutti gli esseri viventi e che ha come concetto contrario la non-vita;
βίος (bíos): indica le condizioni, i modi in cui si svolge la nostra vita. Zoé è dunque la vita che è in noi e per mezzo della quale viviamo, bios allude al modo in cui viviamo.
Oggi siamo ossessionati nel preservare ζωή dimenticando completamente tutto quanto non sia mera “funzione vitale“. Del resto in una epoca materialista come la nostra tutto è limitato alla funzione, ai bisogni, alle pulsioni, all’appagamento bestiale, componente dell’essere umano da non disdegnare né reprimere ma da bilanciare ― da equilibrare per viverla in modo sano ― piuttosto che dare importanza a βίος, al nostro essere spirituale, ai nostri scopi più alti e trascendenti, a quelli sentimentali, a quelli emozionali, a quelli riproduttivi, a quelli sociali, a quelli mistici e intellettuali.
La vita, quella vera, è βίος, vita che per esserci ha bisogno di ζωή, della sua parte strutturale. L’anima necessita di un corpo per stare al mondo, per interagire e amare le altre anime attraverso i loro corpi, ζωή involucro di sentimenti ed emozioni che solo βίος sa metabolizzare, la meccanica dell’anima non può prevalere sull’anima stessa, il veicolo non deve assumere una rilevanza assorbente a scapito del suo conducente come sta invece accadendo in questa crisi senza precedenti.
Preservare la nostra capacità di respirare dietro delle maschere è una cosa che ha già ucciso il respiro, sorridere col viso coperto non è sorridere, salutarsi col pugnetto non è affatto salutarsi, non abbracciarsi non è abbracciarsi, non baciarsi non è baciarsi, la DAD non è scuola e neanche didattica, il terrore che ti impone di preservare ζωή non è βίος, casomai è la sua antitesi, è non-vita.
Stiamo non-vivendo, non-accarezzandoci, non-abbracciandoci, non-odorandoci, non-guardandoci, non siamo più, non viviamo, ormai non esistiamo l’uno per l’altro…però ci dicono che è l’unico modo in cui possiamo “vivere”.
Combattere la possibilità di morire adottando come strategia quella di non vivere non concede nessuna possibilità di vittoria, semmai rappresenta l’archetipo di una resa ipocrita.
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