23/10/22
Il dannatissimo ― quanto poco frequente ― 81 gira a destra su Via Claudia, lo fa proprio dopo il Colosseo, proprio dove scendo quando sono fortunato e passa sotto casa che non devo cambiare combinazione, però io scendo dal lato opposto. È qui che salgono loro, faticando a issare il passeggino col piccolo molto piccolo, coperto da una coperta che resta immobile, e resta dormiente, lo fa per tutto il tragitto.
È una coppia relativamente giovane, almeno visti i tempi. Lei completa un vestitino morbido, una discreta e minuta fantasia floreale poggiata sul malva, con degli anfibi neri. Lui ha il berretto con la visiera, gli occhiali pantos in metallo sottile, dorato e slavato. L’abbigliamento, berretto compreso, è monocromatico blu, da grandi magazzini, con uno stile consapevole e minimale ma con la caduta di stile, almeno per me che ho più di mezzo secolo, dovuta al logo “robe di kappa” che si staglia sui calzini1.
Li amo, li invidio con una invidia colma di affetto, ho grande stima per loro, vorrei essere così, ma io così non sono, non mi sono guadagnato questo privilegio.
Quasi più nessuno ― maledetti noi ― è così.
Lei è bella, non bellissima ma frizzante e impossibile da ignorare, è “vera“. Riccia, mora, ha dei lineamenti eleganti e singolari, è Vera, si dovrebbe chiamare esattamente così, come la Vera Lynn di Roger Waters, e verrebbe proprio da chiedersi “What has become of you?” o, meglio ancora, cosa è stato di noi e cosa è di te, soprattutto.
Ha un viso lungo, elegante come una faraona egizia, un naso sottile ma importante, leggermente arcuato, un fisico asciutto, attraente, ha un fascino particolare, che sembra sorgere nelle viscere per diventare esteriore ma solo per pochi eletti, mi sento un privilegiato. Letteralmente brilla, questo miracolo si manifesta davanti ai miei occhi riconoscenti, mi appare felice di vivere. È bellissima, fiera di sé, appagata di quello che è diventata.
Lui pure è elegante, è alto, sfoggia una barba mitteleuropea poco folta ma lunga, non lunghissima. Anche lui sembra appagato di quello che si ritrova ad essere, è raggiante, consapevole almeno quanto lei, ma per me resta un contorno come ogni uomo è destinato ad annullarsi di fronte al miracolo della vita che si rinnova: un comprimario necessario che attinge importanza dalla sua necessità asservita.
Sorridono l’uno all’altra nella loro splendida e immensa normalità, è sublime, la bellezza esiste, l’amore esiste, l’umanità resiste alle sue stesse, inenarrabili, brutture.
Io, di converso, sono straordinariamente, ed eccezionalmente, solo. Arrivo a sedere su questo scomodo sedile di plastica dopo una cena “dar filettaro“, quello vicino Campo de’ fiori. Mi sono rifiutato ― l’ho fatto con ogni residuo delle mie scarse energie ― di rintanarmi in casa dopo il lavoro, di stare lì senza il mio complemento, un amore bello e complesso, tanto quanto come posso essere io (come lei). Un amore positivo, sebbene “postumo“: mi ha cambiato in meglio.
“Postumo” perchè arrivato troppo tardi ― ma solo a causa mia ― per rinnovare la vita. Non era un capriccio egoista, resta una necessità fallita. Eppure è un miracolo, un miracolo che meritavo di certo per la fatica di respirare ancora, ma che priva lei, e frustra me.
Zio Enzo e zia Nina mi dicevano sempre che esistono donne che ti “acconciano“2 e donne che ti “accidono“3. Loro hanno sempre inciso nella mia vita ben più di quei cazzo di segni zodiacali (semicit. Luciano De Crescenzo).
Una delle seconde (le donne che ti “accidono“) mi ha regalato la mia massima gioia e pure il mio massimo dolore, ma sempre e solo perché sono abbastanza coglione da capire tutto in grande e colpevolissimo ritardo.
Una delle prime invece (le donne che ti “acconciano“), quella attuale, mi ha rigenerato, portandomi però un conto da pagare. Ma è un conto sostenibile per le mie capacità emotive, un conto che sono grato mi si sia presentato: non esitono pasti gratis e non si riceve mai senza dare, una simmetria che viene troppo spesso trascurata.
Apprezzo il prezzo e lo pago, con gioia, ma stasera mi sento solo, quasi vecchio, e in effetti lo sono, come quando mangiavo, sempre solo, “dar filettaro“.
Divagazione 1: ho sempre desiderato essere vecchio, anche da giovanissimo, pensavo che nessuno potesse più rompermi il cazzo da vecchio, poi ho capito che, questo genere di vecchiaia, bisogna guadagnarsela a prescindere dall’età.
Intanto il passeggino con l’infante campeggia al centro dell’autobus della motivatamente vituperata ATAC mentre siamo quasi a San Giovanni, allora mi prefiggo di memorizzare l’immagine mentale di questa bellezza, perfetta in potenza e, mi auguro, nei fatti, e vaffanculo a tutta la merda che proiettate nel nostro cuore, schifose samente4 che non siete altro!
Il Pigneto sta per accogliermi ancora e berrò, berrò certamente, prima che l’alba di domani mi colga ad aspettare questo stesso autobus ― ma in direzione inversa, e pure con prospettive tutte differenti.
Domani mi aspetta la crostata al cioccolato della compare della collega (sì, la tua), mi aspettano chiacchierate infinite su un nulla assorbente come sa essere solo l’essenza vera della nostra miserrima quanto splendida umanità, dolce e “bbòna” (rido). Godo nel pregustare parti di bontà elargita per amore, una sorta di comunione dello spirito che trascende la religione assumendo le caratteristiche di un rito privo di moderazione.
Mi accorgo, solo ora, che le proiezioni delle mie speranze sono anglofone, succede mentre risuona nelle mie cuffie “Cesare va a morire e morirà“, con GLF che canta della nostra esistenza suonando gli zoccoli dei suoi amati cavalli.
I barbari sono diventati, ancora una volta, l’ultimo baluardo della civiltà che abbiamo creato: le province difendono la capitale dell’impero perché non perisca nella barbarie, il paradosso è rinnovato nell’attualità.
“Tutti andiamo incontro alla morte” ma ognuno sceglie percorso e tempo, niente cambia la destinazione, né la disperazione, e tantomeno la gioia che se ne dispera.
Ma ormai sono quasi a “ipercarni“, devo scendere, il viaggio “deve finire e finirà“.
Divagazione 2: Se potessi scegliere starei immerso nella carne della mia amata, a riscaldarmi le viscere che soffrono delle loro fragilità, ma non posso, e allora scrivo per sublimare le mie frustrazioni con la sola consolazione della loro effimerità.
Divagazione 3: La solitudine e l’ascesi restano un metodo che, a costo di privazioni e penitenze, danno frutti, spesso dovuti alla pura sperimentazione più che alla meditazione, almeno nel mio caso, ma che, da autore, apprezzo.
Divagazione 4: Ho scritto tutto con un sistema che da tempo volevo sperimentare, una sorta di “reportage” letterario. La questione è sempre sottotraccia nella mia testa, e riguarda la problematica del linguaggio. Il reportage è relativo a una espressione che ho ampiamente usato, quella fotografica, ma esiste una declinazione possibile del concetto in innumerevoli strumenti espressivi, come la scrittura. Ho quindi solo “normalizzato” un testo che ho scritto nel breve tragitto sull’autobus usando l’app “note” del mio smartphone.
Note
1 – il logo “Robe di Kappa” riproduce l’immagine stilizzata di un ragazzo e una ragazza, seduti schiena contro schiena. I due vengono immortalati in uno studio fotografico di via Pomba a Torino, dal fotografo Sergio Druetto. La scelta rispecchia le idee del tempo: la posa dei due sembra studiata per riprodurre la classica seduta da muretto dei ragazzi di una volta. L’immagine comunica il nuovo senso di libertà nello stare insieme, ma anche la contrapposizione tra i sessi negli anni del femminismo. In realtà, la foto sarebbe frutto di un momento di pausa dei due modelli, nel corso di un photo shooting per il marchio Beatrix di costumi da bagno. È quindi un’immagine molto naturale, quasi rubata, successivamente scontornata e collocata su fondo bianco, sopra la scritta in grassetto. Comunque sia andata, nasce finalmente il logo Kappa (addlance blog cafè).
2 – derivazione contratta del latino aureo “concinnare” aggiustare-migliorare ed implica in napoletano il senso di aver fatto bene una cosa con maestria, da qui deriva anche “cuoncio-cuoncio” piano -piano, con attenzione, sempre nel fare.
3 – “Accidere” in napoletano sta letteralmente e figuratamente per Uccidere.
4 – Latino volgarizzato per “Uomo di Samo“, abitante dell’isola di Samo, anticamente centro della produzione di terracotte di alta qualità usate per i dotti di trasporto dei fluidi, da cui il napoletano “Samenta“, Cloaca, Chiavica maestra e il più descrittivo “Sament’ e mmerda“, Fogna, Cesso. Sin. Latrina, “Omm’ è mmerd’“, etc.
NB: il titolo si contrappone all’estetica vuota di un celebre film che va a parafrasare.
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