lunedì 20/07/20
Era successo che, dovendo andare fuori città per una settimana intera, ero passato senza preavviso, una sera di lunedì, a casa da mio figlio per consegnargli la sua copia del mio libro con la sua dedica. Mi sembrava un motivo sufficiente e ragionevole.
Certo, era stato con me l’intero fine settimana, avrei potuto spremermi per scrivergliela, ma non mi era venuta proprio, avrei scritto qualcosa così, senza un particolare significato, avrei svilito una cosa che per me era importante, la dedica a mio figlio sul mio primo libro.
L’accoglienza che mi fu riservata, erano circa le 21:30, non fu eccezionale, diciamo così.
Stavano ancora mangiando, cosa strana ma va bene, tanto che in quella occasione mi rifiutai di consegnargli il libro, gli dissi che lo avremmo fatto con calma, quando avremmo potuto prenderci il tempo che serviva per farlo come si deve, senza le pressioni e i nervosismi che ci assillavano in quel momento.
Il mercoledì successivo mio figlio stette con me, finalmente, dopo più di una settimana potevo concedermi il piacere, malamente rimandato, di svolgere correttamente il cerimoniale.
Ci sistemammo sul divanetto in camera, presi il suo libro, il tempo si dilatò ― o così sembrò a me ― lo guardai per qualche lungo istante cercando di scegliere le parole giuste e dirgli quello che avevo da dirgli.
Billy (non sono autorizzato dal suo genitore 2 a scrivere il nome), questo è il libro che volevo consegnarti lunedì scorso ma, come sai, la situazione non era serena, per questo ho preferito aspettare un momento più favorevole per fare anche due chiacchiere dopo che tu leggerai quello che ti ho scritto.
Sentivo pesare ogni parola, cercavo di pronunciarle in maniera solenne, come un sacerdote, non volevo fallire ― come spesso ho fatto ― un ulteriore momento significativo senza assaporarlo, senza dargli il corretto valore.
Lui prese il libro, vide che c’era la dedica e cominciò a cercare di decifrare la mia scrittura.
Mentre lo faceva mi colse con sorpresa il pensiero che forse, lo scrivere in maniera “poco leggibile”, ha a che fare con la mia timidezza, col timore del giudizio su quello che penso e codifico, blu su giallino in questo caso. È come se una grafia più contorta potesse camuffare gli errori di concetto, di valutazione, di sintassi e perfino di grammatica.
Ho pensato a più di mille modi nei quali questa dedica, che pure mi piace molto, poteva essere migliorata, eppure l’ho scritta di getto e così ha da restare.
Quando aspetti che ti arrivi e infine ti arriva va bene così come viene, spesso ti sorprende, come se fossi posseduto da quello che vuoi dire, se si vuol dire qualcosa, se si ha davvero qualcosa da dire.
Ho spesso subito, quasi con voluttuoso piacere, questa possessione da scrivente, quando in maniera incosciente plasmavo i miei pensieri latenti, una volta con la penna sul foglio, che ti veniva proprio dolore alle mani, che rivedevi mille volte scarabocchiando quello che avevi messo sul blocco spiralato, che ti faceva fatica fisica, e poi adesso col digitale, pulito ed efficace, che forse addirittura preferisco, quando le dita registrano ciò che senti senza pensare, perché hai già pensato troppo e non serve più, serve sentire, ma non voglio continuare a divagare.
Lui mi ha chiesto diverse volte che parole erano “difficoltà”, “perdonato”, “umano” e altro che faticava a leggere, ha letto tutto ma non mi diceva grandi cose, anzi, mi guardava di tanto in tanto senza parlare.
Quindi ho provato a fargli capire che, con quello che gli avevo scritto, volevo suggerirgli di perdonarsi i difetti che per sua natura deve necessariamente avere, che io ho imparato a farlo molto tardi, che spesso ancora non riesco a perdonarmi, che deve volersi bene, che non si deve preoccupare di non avere tutti dieci al primo quadrimestre, che io gli vorrei bene lo stesso anche se avesse avuto tutti sei ― ché di coglioni eruditi e colti ne conosco a bizzeffe e sono pure i peggiori ― che il mio amore per lui, che mi racconta cose complicate come solo un grande cervellino sa fare, va ben oltre i suoi risultati, che lui è un grande uomo ancora piccolo, che mi meraviglia e mi inorgoglisce sempre, costantemente.
Io lo guardavo perché non potevo farne a meno, e lui mi ricambiava senza saper bene che fare, io lo continuavo a fissare con un sorriso che mi univa le orecchie, disarmato, lui guardandomi si allontanò andando verso il letto, senza dire nulla, solo controllava ogni tanto la mia faccia di cazzo col sorriso stampato che lo fissava, prese la Nintendo Switch ― doveva alleggerirsi chiaramente ― allora gli chiesi mentre ridevo: “non te ne frega niente eh?”.
Lui mi ha risposto, con quella saggezza che io non posseggo ancora e forse mai possederò: “no papà, ma magari, quando sarò grande, me ne fregherà”.
Ha ragione lui, magari è così, è giusto che sia così, quando sarà grande potrebbe davvero fregarsene, quest’uomo ancora piccolo.
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