Arte Riflessioni Senza Categoria

Antiquo sum

08/11/22

Se fosse una fotografia, allora sarebbe stata realizzata con un 50mm f/1.4 vecchio di cinquant’anni, distorto, difficile da focheggiare, pieno di aberrazioni ma che ti permette, grazie alle sue imperfezioni, di lasciare l’osservatore concentrato sul concetto, una forma che lascia prevalere la sostanza.

Vagavo tra i rigogliosi e decadenti affreschi bizantini della chiesa di Santa Maria Antiqua. Ero nel luogo in cui Roma divenne ― dopo che i Dioscuri si abbeverarono alla fonte di Giuturna ― un’idea, e che solo poi si realizzò in quello che fummo. Galleggiavo nella bellezza rielaborata di un occidente in declino, ma meno di quanto lo sia oggi.

Pietre, colori e volumi vibravano grezzi dentro di me, ridotto a loro silente strumento.

Mi sono sorpreso a desiderare un nimbo, qualcosa che mi era ignoto solo un attimo prima, ma anche un’aureola potrebbe andare per me, indegno peccatore, perché deve, deve esserci qualcosa di più elevato di questo consumarsi sterile.

il bisogno di sacro mi ha pervaso

Ha saturato me non credente, me deficiente di tante cose, me mistico naive immerso in una adorazione delle immagini ricevuta per osmosi, privo di vera coscienza, metabolizzo tutto attraverso una funzione organica meccanicistica che si sublima solo a posteriori.

C’è un mondo ignoto celato nell’erroneamente ritenuto acquisito, troppi particolari fatti di terracotta e di sensazioni sono nascoste dalla coltre dell’usuale e ti privano degli occhi, del naso, del calore, della comprensione, rimbalzandoci sull’epidermide. E invece ci sono catene e catini, ci sono sentieri e mosaici, ci sono barriere e aperture, c’è e c’è ancora e io, io che odio la modernità, ancora una volta apprezzo in Hristoche Cristo non è ― lo svelare alla vista quello che la ragione cela ai nostri sensi.

L’atrio privo di tetto mi ha proiettato dentro lo stupore della memoria di altre immagini, di immagini in movimento, di immagini sacerrime. Mi trovavo di colpo a San Galgano, dritto dentro Nostalghia. Ero il me di quella sera, seduto davanti al camino in montagna, sentivo l’odore caldo del legno che illuminava la stanza e mi riscaldava la faccia. Cumuli enormi di neve bianca come sa essere solo il candore ottundevano il chiasso, ovatta soffice che sosteneva l’anima, isolava dal male e dalla frenesia svilente, ti lasciava osservarti in quello che sceglievi tra le mille scelte. Ho pensato alla scena finale che gelò il caldo bicchiere che tenevo in mano, quella in cui le forzature erano estreme ma legittime, perché il sacro ne era giustificazione autentica.

L’uomo sa essere splendore ineguagliabile, l’uomo sa esserlo ma non deve per forza. L’uomo sceglie, ma sempre preferisce quello che gli dà realizzazione o, di ripiego, quello che si arrangia ad essere, splendere non è da tutti ma tutti possono.

il sacro è sublime, opposto al culto della luce, nascosto nelle pieghe della ragione.

Scoprirmi così piacevolmente anacronistico in un posto sacro all’umano e al divino sublima il mutare degli obiettivi che credevo erroneamente prioritari.

Il mio ricadere nel pensiero ascetico ― certamente in maniera indegna ― spesso incrocia il linguaggio del cinema, lo feci già con “Resurrezione” e pure con “Le armonie di Bèla Tarr“, film immensi ai cui autori chiedo perdono anche solo per averli usati allo scopo di provare a esprimere concetti e sensazioni.

Una delle mie poche, ma preziose, fortune è quella di poter godere di alcune bellezze in maniera privata, spesso solitaria, a volte addirittura con un Virgilio che mi prende per mano guidandomi nell’ignoto, che mi aiuta a rischiarare il mio personale Inferno rendendolo incredibile, sorprendente, e a cui devo gratitudine.

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Illustrazioni Federica Macera