La moderazione non alberga in noi
28/01/25
Il viaggio, anche il più banale, ha delle incognite che risuonano nel nostro profondo rigenerandoci, se solo riusciamo a farle nostre.
Mi alzo di buon mattino, so che sarà una corsa ad ostacoli arrivare in orario a lavoro a Roma, nonostante la mezza giornata di permesso che mi sono preso.
Scendo a piedi da casa intorno alle 7:30 per prendere l’autobus sostitutivo della circumvesuviana delle 7:50 per Napoli. La stazione dista dieci minuti di cammino su una piacevole pista ciclabile. Dalla partenza ho 70 minuti per arrivare al mio autobus verde, immagino di farcela, sono fiducioso.
Fa caldo, è uno di quei momenti in cui le giornate si allungano, il sole dura di più, scalda di più, e tu non sai più come cazzo vestirti. Allora cammino con il giubbotto in mano, addosso ho solo la felpa, non accelero troppo perché suderei come una puttana a un raduno dell’Opus Dei anche così leggero.
Quando arrivo alla stazione ― da dove non partono più i treni per Napoli ― è ancora presto, perciò decido di sedermi a un bar che, da quanto vedo, non obbliga a consumare. Non mi andava neanche un caffè, questo mi rasserena.
Il mio vicino di sedia è un gatto bianco, ha delle pezzature nere sull’occhio sinistro. È educato, mi saluta miagolando in maniera netta per educazione, ricambio per buona creanza ma poi ognuno di noi si fa i fatti suoi. Un gatto serio.
Una signora bionda di mezza età fuma tranquillamente, seduta al tavolino di fianco al mio. Lo spazio è grande e il ricambio d’aria è garantito da ampie aperture, i posacenere sul tavolo sono indicativi ma, in quest’epoca di pazzi salutisti accàzzo, fa sempre un certo effetto, mi piace. Quando noto del movimento, pensando stessero arrivando gli autobus, le parlo, è misuratamente cordiale come il gatto, da come parla si capisce che è dell’est Europa e, come il gatto, non è invadente.
Dalla mia città in provincia di Napoli, una volta più o meno efficacemente collegata al capoluogo dalle linee a scartamento ridotto della circumvesuviana, arrivare agli snodi di autolinee e treni a percorrenza media e lunga è diventata una prova di sopravvivenza.
La stazione di Napoli nord progettata da Zaha Hadid, quella di Afragòla, mi è molto più vicina ma ha due incommensurabili difetti.
Il primo è l’assoluta mancanza di collegamenti tramite mezzi pubblici, magari ce ne sono pure ma nel caso saranno dei pro forma, basti pensare che manca addirittura un collegamento con l’autostrada del sole che corre ad appena 500 metri di distanza.
Il secondo, per i morti di fame come me e come il 99% degli italiani, è che da lì partono solo treni veloci: settanta euro per l’andata e ritorno dalla capitale, salvo promozioni attualmente assenti, sono qualcosa che mi dà il nervoso e che trovo inaccettabile, casomai vado a piedi, e in effetti l’epilogo, vi anticipo, sarà più o meno questo.
I treni regionali, economici ma lenti, sono diventati una rarità e partono solo da piazza (omm’ ‘e mmerda) garibaldi (minuscola), da Afragòla non esistono del tutto, mentre gli Inter City costano sotto i trenta euro a tratta, quindi non appetibili paragonati all’alta velocità.
Resta una ultima opzione per quelli come me, gli autobus, che partono sempre da piazza (omm’ ‘e mmerda) garibaldi, ma che un vero partenopeo chiama sempre e solo ‘a ferrovia, proprio come piazza del Plebiscito resta sempre e solo Largo di Palazzo per gli stessi ovvi motivi. Del resto sono abituato a condividere i trasporti pubblici urbani con miriadi di “nuovi italiani” Kalergi style, prendo immancabilmente la linea centouno, ossia un italiano, io ― che non sono neanche tale perché napoletano ― e cento stranieri.
Ho scelto un autobus verde anziché rosso come al solito, questo perché mi avrebbe portato, salvo ritardo, per mezzogiorno a Roma Tiburtina, cosa che mi avrebbe permesso, con la sola metro B, di arrivare liscio e in comodo anticipo sulla timbratura programmata.
Torniamo a Pomigliano. Arriva prima un autobus che parte dopo, faccio per salire e chiedo se è quello giusto ma, deluso, scendo. È però solo questione di un attimo e arriva quello giusto. Sono le 7:45, bene.
Mi godo lo spettacolo dell’autista che cambia il raffazzonato cartello stampato che indica la tratta, per fortuna è quella giusta, il tabellone a led è rotto. Salgo col biglietto cartaceo e faccio per obliterarlo nell’apposita macchinetta ma no, mi dice che non funziona, fa lui a penna. Gli dico che va bene, faccia come gli pare, basta che mi porti a Napoli. Nel mentre lui fuma, e fuma dentro il bus, poi però scende. È fantastico, amo queste illegalità da libera anarchia, giuro.
Finalmente partiamo e non posso non ammirare l’abilità che contraddistingue i guidatori di bus, mai. Questo mi sembra più in gamba della media. Si destreggia nel traffico impossibile ma non può fare miracoli, alla fine ne usciamo dopo un quarto d’ora, e comincia a dare il meglio di sé in spazi più larghi.
Prendiamo la superstrada che porta al centro di grattacieli più grande dell’Europa meridionale. Corre come un ossesso, sono felice, ho qualche chance. Suona a chi lo intralcia, cambia corsia quando vede che una scorre più dell’altra, mi sembra una corsa in macchina di quando eravamo ragazzi, ma più professionale, mi viene da sorridere per lo stupore di un amore ritrovato. Elude l’intoppo dello svincolo per il raccordo della A1 e ricomincia a correre ma è un’estasi di breve durata, non può, con mio enorme rammarico, vaporizzare il traffico disumano dell’uscita che ci interessa, siamo fermi, o quasi.
Vedo sfuggirmi l’agognato verde trasporto sul quadrante del mio orologio, però… Non mi arrendo. Consapevole dei cospicui limiti umani che mi riguardano decido che ho ancora una possibilità, e questo solo perché sono nella mia città, dove l’anarchia e la libertà viene in soccorso del genio, della follia magari, ma l’uomo è uomo e non macchina, le statistiche non lo vincolano. A dispetto di ogni previsione io posso farcela.
“Scusami maaa… ce la faccio a prendere l’autobùs alle nove?“, gli dico.
“Guagliò, me sa che ll’e perz!“, dice lui.
“Si me fai scennere nun ll’aggio perzo… Ma tu addò me può fa’ scennere? Nunn’ è ca me può fa’ scennere ccà? (eravamo sulla supertrada!)”, incalzo.
“Però nun te voglio mettere in difficoltà, vedi tu…“, avrò esagerato?
Allora lui, e solo lui avrebbe potuto, dopo averci pensato mezzo minuto, apre la porta e mi dice:”Scìnn!“.
Io gli dico: “guagliò sì gruoss’, grazie assaje!“
Mi sento libero come non sentivo di essere da anni, anni di cashless, Spid, PEC, timbri, permessi e puttanate di ogni sfaccimma di tipo. Scendo di corsa e comincio incredulo e a passo forzato a camminare in mezzo allo smog e alle automobili. I passaggi nel mezzo dell’ingorgo sono stretti e devo stare attento a tutti, nessuno si aspetta un pedone, ma l’adrenalina mi aiuta, mi sento folle… E vivo.
Mi viene in mente Frankenstein jr. e, manco a farlo apposta, sotto la felpa c’è un maglietta, con Marty Feldman/Aigor che indica un cervello in soluzione salina, sembra il mio di oggi che mi fa scendere e correre nel traffico di una superstrada: Abby-Normal. Ma non è quella la citazione adeguata al momento, quella giusta è questa:
poteva andare peggio, poteva piovere!
Comincia a piovere, fortunatamente non è uno scroscio d’acqua tropicale ma piove. Nel mentre supero il tribunale, di tanto in tanto vado a passo di corsa con lo zaino zavorrato, mancano solo cinque minuti alla partenza. Proseguo caparbio ma la mia determinazione comincia a vacillare. Quando arrivo sotto i portici esterni del Centro Direzionale, sul Corso Malta, mentre costeggio il centro di cultura fotografica a cui fui proprio io a dargli il nome, mi arrendo alla realtà.
Mancano solo due minuti, sono centoventi secondi appena, non ce la farò mai, devo dar ragione alle statistiche che ho voluto ignorare. Intanto ha cominciato anche a piovere più forte. Non sono incazzato né deluso, l’uomo è fatto di ambizioni da inseguire, da quelle più alte a quelle infime, rappresentate magari da un autobus per poveracci che ti rode il culo perdere. Però, se lo perdi, non è perché hai mollato. Non era importante, era solo una questione di principio con me stesso, una questione veramente del cazzo, il desiderio di assaporare una piccola e folle libertà, la voglia di non darsi per vinto.
È questo il mio difetto massimo, assoluto, impossibile da moderare: Io non mollo. Forse non è un vero e proprio difetto o, in ogni caso, ci sono troppo affezionato.
Il resto della storia non ve la racconto neanche, perché il viaggio non è la meta.
NOTA: Il racconto prende spunto da eventi e luoghi reali, ma è volutamente romanzato, non racconta le cose nella loro realtà, è volutamente forzato in diversi aspetti e dà libero sfogo alla mia fantasia.
In viaggio
Girano i Sufi in tondo nello spazio
Nel tempo
Salgono i verticali i monaci in clausura
Immobili
Viaggiano l’alto il basso senza abbellimenti
(Cadono di vertigine…
Cadono di vertigine…)
Strisciano verso il ritmo i tarantolati schiacciati dallo spazio senza tempo
Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti
Viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti viaggia Sua Santità
Consumano la terra in percorsi obbligati i cani alla catena
Disposti a decollarsi per un passo inerte più in là
Coprono spazi ottusi gli idoli
Clonano miliziani dai ritmi cadenzati
In sincrono
Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti
Viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti viaggia Sua Santità
Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti
Viaggia la polvere viaggia il vento viaggia l’acqua sorgente
Viaggiano i viandanti viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti viaggia Sua Santità
Viaggiano ansie nuove e sempre nuove crudeltà
Cadono di vertigine…
Cadono di vertigine…
Cadono di vertigine…
Cadono di vertigine…
da Ko de mondo, Consorzio Suonatori Indipendenti (C.S.I.), I dischi del mulo, 1994